puntodelibere - Quesiti e risposte n. 3

QUESITI E RISPOSTE

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n. 3 - 9 febbraio 2018

Categoria 2 - GLI ASSENTI GIUSTIFICATI E IL QUORUM STRUTTURALE

D. 
Vale ancora la norma sugli assenti giustificati? E in particolare quanti possono giustificare l'assenza e fino a che quota?

R. 
La norma di riferimento è contenuta nel RD 6 aprile 1924, n. 674, art. 18: «Per la validità delle adunanze del senato accademico, del consiglio di amministrazione, dei consigli di facoltà o scuola, del collegio generale dei professori, è necessario: 1º che tutti coloro che hanno qualità per intervenirvi siano stati convocati per iscritto tre giorni prima dell’adunanza, salvo il caso di urgenza, con l’indicazione degli oggetti da trattarsi; 2º che intervenga almeno la maggioranza di coloro che sono stati convocati, salvo il caso che, per determinati argomenti, sia diversamente disposto. Nel computo per determinare la maggioranza non si tien conto di quelli che abbiano giustificata la loro assenza. (omissis)».
Orbene, in base a una delle regole generali del funzionamento degli organi collegiali, le adunanze sono valide, se non diversamente disposto, qualora partecipi la maggioranza degli aventi diritto (metà più uno). Si tratta, invero, di un principio amministrativo e civilistico. Di conseguenza, non è possibile costituire regolarmente un collegio universitario qualora si giustifichi la metà più uno degli aventi diritto. Nel concreto, esiste il limite naturale del 49% dei potenziali assenti giustificati. Di contro saremmo di fronte a un paradosso della collegialità: potremmo forse ritenere valida un'adunanza in cui tutti giustifichino la propria assenza, tranne due?
Alcune università hanno limitato la giustificazione dell’assenza soltanto a un "legittimo impedimento" (ad es., Perugia) o a "motivi di salute, seri motivi di famiglia o inderogabili motivi d’ufficio" (ad es., Torino). Altre, invece, hanno ritenuto possibile giustificare l'assenza dei due terzi degli aventi diritto, lasciando che il restante terzo possa legittimamente deliberare.
In molti statuti, inoltre, le disposizioni del regio decreto sono state derogate per gli Organi collegiali centrali (ad es., Trieste). In altre parole, l'art. 18 del RD 674/1924 non è stato ritenuto applicabile al Senato accademico e al Consiglio di amministrazione, esattamente come rilevato dal MIUR a carico di molti Atenei in fase di controllo della nuova stagione statutaria a seguito dell'entrata in vigore della legge 240/2010. Viene, invece, mantenuto per gli organi delle strutture didattiche, di ricerca e di servizio.
Gli atenei, spesso, hanno disciplinato in maniera autonoma la legittimità e il computo degli assenti giustificati, per cui è sempre opportuno leggere con attenzione e in combinato disposto lo Statuto, il Regolamento generale e, laddove presente, il Regolamento di funzionamento degli organi delle strutture didattiche, di ricerca e di servizio, al fine di comprendere l’effettivo ambito di applicazione.
Esemplare la pronuncia del TAR Lazio, sez. III, 6 giugno 2013, n. 5672, il quale, con riferimento all'art. 79 dello Statuto dell'Università degli Studi di Roma Tor Vergata, ha statuito che «il computo del quorum si effettua detraendo preventivamente dal numero dei componenti quello di quanti abbiano giustificato la propria assenza... e poiché secondo il ridetto articolo dello Statuto gli assenti giustificati non vengono computati, ai fini del raggiungimento del quorum costitutivo necessario ai fini della validità della seduta, in relazione al numero dei docenti intervenuti nella seduta del Consiglio in data 12 aprile 2006 il numero dei votanti (28) è superiore a quello degli assenti ingiustificati che è di 24, laddove gli assenti giustificati da togliere dal novero dei 30 assenti sono 6, con la conseguenza che il quorum va considerato corretto alla stregua della detta norma».
In conclusione, la disposizione sugli assenti giustificati vige ancora nell'ordinamento generale e in quello degli atenei, di norma per le strutture didattiche, di ricerca e di servizio.
A questo link (https://www.procedamus.it/images/puntodelibere/1924RD674.pdf) è possibile scaricare il RD 674/1924, il cui art. 18 si trova a p. 1884. Un tanto per rilevare la modernità del legislatore di allora, dal momento che il quarto comma tratta in maniera sintetica e nitida il conflitto di interesse. L'ultimo comma, invece, introduce l'obbligatorietà della tenuta dei verbali, oggetto poi della Circolare del 1939, che vedremo in seguito.
Infine, non dimentichiamoci che il quorum strutturale per i collegi dei Dipartimenti e delle Scuole è variabile in ragione delle materie trattate (se il tema riguarda i professori ordinari, non vi partecipano i ricercatori e i professori associati, oltre a studenti e al PTA). Ma di questo parleremo nelle prossime settimane.

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puntodelibere - Quesiti e risposte n. 4

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n. 4 - 16 febbraio 2018

Categoria 0 - LA MOTIVAZIONE E LA PROPOSTA DI DELIBERAZIONE
D. Voglio restare anonima. Il mio Direttore mi dice che meno scrivo e meno motivo nelle delibere meglio è per tutti. È vero?

R. Un giorno, il Preside di una Facoltà convocò nel proprio studio un funzionario ancora agli inizi della carriera. «Legga questa delibera e mi dica se capisce qualcosa». Lesse attentamente. Poi la rilesse ancora.
Era un testo molto vago, nel più fulgido burocratese. Temendo di fare una brutta figura, disse «Molto elegante, ma veramente non ho capito molto, mi sembra un testo confuso, ma sarà a causa delle parole utilizzate e della lunghezza dei periodi». Il Preside sorrise e rispose: «Bene, molto bene, allora l'ho scritta proprio bene!».
Questa domanda introduce due tematiche molto importanti. La prima riguarda la chiarezza del linguaggio, l'altra la motivazione.
Sulla chiarezza del linguaggio, ci limitiamo a ricordare - ex multis - gli interventi di Sabino Cassese, Tullio De Mauro, Michele A. Cortelazzo e Alfredo Fioritto, nonché alcuni circolari esplicative del Dipartimento per la funzione pubblica. Oltre a rileggere Italo Calvino, possiamo riprendere tra le mani quest'agile lavoro (che riporta proprio Calvino).
In poche parole, la scarsa chiarezza, oltre a essere una disonestà intellettuale, rappresenta un costo sociale, perché genera contenzioso e sfiducia, considerando che è più facile parlare senza farsi capire anziché parlare in modo chiaro.
Sulla motivazione, invece, occorre spendere qualche parola in più. Nonostante ciò rappresenti una scarsa diligenza o comunque palesi una professionalità carente in capo a chi redige un provvedimento, difficilmente un giudice censurerà una deliberazione per una citazione normativa sbagliata o mancante, a meno che ciò non infici palesemente il costrutto logico-argomentativo. L'art. 3 della legge 241/1990 prevede che la motivazione (dal lat. movere/motus, cioè le ragioni che spingono ad adottare un provvedimento; nel linguaggio penalistico il movente) debba essere presente. Non solo. La motivazione deve essere congrua e intelliggibile. Numerosa e qualificata giurisprudenza, infatti, ha più volte ribadito la diretta proporzionalità della motivazione. Quanto più un provvedimento è complesso e articolato, tanto più la motivazione dovrà essere articolata ed esaustiva, direttamente proporzionale alla complessità. È dunque necessario dar conto non solo agli organi vigilanti, ma alla collettività pubblica, delle ragioni che hanno portato a una decisione determinata. E, necessariamente, le ragioni passano per le circostanze di fatto che in un frangente determinato sono accadute. Dopo le premesse di fatto e di diritto, dopo gli accertamenti tecnici, se presenti, deve dunque trovare un posto più che dignitoso la motivazione. Essa è, di norma, introdotta dal "Considerato opportuno", cioè dall'esplicitazione delle ragioni che inducono a scegliere - tra più soluzioni possibili - proprio quella adottata nel provvedimento amministrativo.
Al di là della forma, la parte dispositiva (il vero “deliberato”), cioè tutto ciò che, testualmente, viene scritto dopo il “delibera” (verbo che identifica il nomen juris del provvedimento), a volte risulta confusa tra la premessa e le formule finali, innescando un’incertezza dell’azione amministrativa. Ciò finisce con il non riconoscere alla deliberazione un’autonomia vera e propria di atto amministrativo, distinta dal verbale della seduta.
Alla luce di quanto disposto dall'art. 3 della legge 241/1990, la mancanza della motivazione integra il vizio della violazione di legge, perché manca uno degli elementi richiesti dalla norma. Ciò può far scaturire l’impugnazione per ottenere l'annullamento dell'atto. Di contro, qualora la motivazione fosse presente, ma carente, cioè non sufficientemente chiara e argomentata, l’atto potrà essere ugualmente impugnato per ottenerne l’annullamento, ma per un motivo differente. Non per violazione di legge (la motivazione esiste), ma per “eccesso di potere”. Quest'ultimo può manifestarsi sotto svariate forme, definite “figure sintomatiche”. Tali forme devono essere dichiarate in sede di impugnazione dell’atto in un giudizio amministrativo. Si avrà, dunque, un atto viziato da eccesso di potere per la “motivazione insufficiente, illogica, contraddittoria o irragionevole”.
Pienamente ammissibile risulta, invece, la cd. motivazione per relationem. Essa trova la fonte normativa nell'art. 3, comma 3, sempre della legge 241/1990 («se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa»). Per approfondire i rapporti tra la corretta tenuta del fascicolo procedimentale e la motivazione per relationem, è possibile leggere il saggio Due osservazioni sul fascicolo archivistico, da p. 110 in poi.
A proposito dell'obbligo di motivazione, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 310/2010, così ha statuito: «L'obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi (...) è diretto a realizzare la conoscibilità, e quindi la trasparenza, dell'azione amministrativa. Esso è radicato negli artt. 97 e 113 Cost., in quanto, da un lato, costituisce corollario dei principi di buon andamento e di imparzialità dell'amministrazione e, dall'altro, consente al destinatario del provvedimento, che ritenga lesa una propria situazione giuridica, di far valere la relativa tutela giurisdizionale». Quest'ultimo passaggio della sentenza risulta fondamentale per comprendere quanto sia necessario prestare la massima attenzione alla motivazione nella predisposizione di una deliberazione, come di qualsiasi altro provvedimento.
Non esiste, tuttavia, un "metro" adatto a misurarne la lunghezza o l'adeguatezza: scrivere tanto può non essere necessario o sufficiente, scrivere poco talvolta serve per essere chiari nella sintesi. L’importante è far capire, in un italiano semplice - grammaticalmente e ortograficamente corretto - quali sono le basi argomentative (si chiama iter logico-giuridico) utilizzate per arrivare a una decisione determinata.
In conclusione, la motivazione - chiara ed esaustiva - è il primo baluardo a difesa della trasparenza amministrativa. Di contro, avremmo l'opacità assunta all'ennesima potenza. Meglio, dunque, essere esaustivi e chiari, dire tutto; non una parola di più, non una parola di meno. 

puntodelibere - Quesiti e risposte n. 5

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n. 5 - 23 febbraio 2018


Categoria 0 - LE PAROLE DA UTILIZZARE NELLA PROPOSTA DI DELIBERAZIONE
D. 
Noi scriviamo nelle delibere tanti visto, tanti premesso, tanti atteso che: ma sono parole giuste o intercambiabili? Quali dobbiamo usare?

R. Uno scrittore potrebbe iniziare in questo modo il racconto di un'adunanza del Senato accademico: «In una giornata luminosa, mentre una brezza leggera di tarda primavera avvolgeva la sede centrale dell'Ateneo, il Magnifico Rettore entrava con incedere elegante nella sala dedicata alle adunanze dei più alti consessi accademici. Sedutosi, dichiarava aperta la seduta e i muri, maestosamente affrescati, rimbombavano dell'autorevole esordio».
Invece, un segretario verbalizzante scrive:

puntodelibere - Quesiti e risposte n. 6

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n. 6 - 2 marzo 2018

Categoria 1 - LE VARIE ED EVENTUALI
D. Possiamo deliberare sulla voce "Varie ed eventuali"? E' ancora valida o vale solo per i Dipartimenti?

R. Una delle regole più importanti della collegialità amministrativa

puntodelibere - Quesiti e risposte n. 7

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n. 7 - 9 marzo 2018

Categoria 5 - SIGLA, VISTO, FIRMA E SOTTOSCRIZIONE
D. Se il verbale è del Segretario, perché firma anche il Presidente? Chi firma le pagine del verbale? E gli allegati?

R. Per rispondere adeguatamente, dobbiamo prima chiarire alcuni concetti fondamentali. Essi sono legati a quello che Francesco Carnelutti chiamava “il segno grafico riconducibile a un soggetto”, cioè la sottoscrizione. Quel segno, infatti, può subire - da un punto di vista diplomatistico - una tetrapartizione in sigla, visto, firma e sottoscrizione.